New York, sette notti dopo l’uragano torna la luce nella zona sud. Aspettando il Big Tuesday

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New York, sette notti dopo l’uragano torna la luce nella zona sud. Aspettando il Big Tuesday

di Donatella Mulvoni da NEW YORK

E’ tornata la luce a casa, dopo cinque giorni di buio totale. Sono rientrata e ho trovato tutte le lampade accese, anche le lucine che di solito si mettono a Natale. In questi giorni post uragano, ci ho provato in tutti i modi a trovare un barlume. Va bene un giorno, due, tre, ma dopo quasi una settimana, l’attesa diventa snervante. Tra vedere e non vedere le batterie alla torcia le ho cambiate comunque, erano scariche, hanno lavorato troppo. Quasi per abitudine o per pessimismo, mi sono addormenta mettendola vicino al cuscino. Sono passate quasi 30 ore e per il momento non mi è più servita.

Si è riaccesa nel mio palazzo, ma anche in quasi tutti gli edifici che si trovano nella parte bassa di Manhattan. Sandy aveva letteralmente diviso l’isola: da una parte il buio, dall’altra la luce. Attraversare la 34esima strada era come oltrepassare un muro, al di la del quale si viveva una vita pressoché normale.
Per cinque giorni downtown Manhattan si è fermata. Blackout: strade buie, case senza corrente, acqua calda, gas, riscaldamento, internet. Chiusa la borsa, le scuole, la metropolitana, i negozi, gli uffici, i cinema. Fermi anche gli autobus e molti programmi televisivi che hanno gli studi da queste parti. Molti tunnel allagati, ponti inagibili a chiudere ogni collegamento con Brooklyn, il Queens e l’isolotto di Roosvelt island. I semafori non funzionavano, guidare era pericoloso, così come uscire per strada senza una torcia. Anche i ripetitori delle linee telefoniche out. Se per un secondo si smetteva di pensare alla scia di morte e di disastri causati dal passaggio dell’uragano Sandy, a New York, come in New Jersey e in altri Stati, c’era quasi da ridere davanti a certe scene surreali. Le regole sono saltate: niente multe per chi parcheggiava in zona vietata, I pochi autobus che viaggiavano non facevano pagare la corsa e i taxi erano costretti a far salire più clienti per velocizzare i tempi. Gli occhi delle autorità rimanevano chiusi anche davanti ai piccoli esercizi commerciali che aprivano al buio per vendere i prodotti senza fare lo scontrino, avendo la cassa spenta. Era curioso vedere la gente entrare e farsi luce con i telefonini per cercare merendine e biscotti o qualche bibita. Il conto era forfetario e scritto a penna su un foglietto.
Per strada i maggiori incidenti si sono rischiati a nord dove tutto funzionava, perché gli autisti ci arrivano senza più considerare i semafori, abituati ormai nelle zone senza elettricità a mercanteggiare precedenze e stop direttamente con le altre vetture. Se da sud risalivi a piedi, in ogni angolo salvato dal blackout c’erano decine di persone con i computer in mano e il naso all’insù a cercare una connessione wifi, altri che “scroccavano “ un po’ di corrente per ricaricare i cellulari negli hotel aperti, nei ristoranti, o anche per strada, sfruttando le prese delle lucine sistemate negli alberi dell’elegante park Avenue. Era tutto semplicemente assurdo. Downtown Era spettrale, fermo. Un ritorno al passato.
In città alla vigilia molti hanno preso sottogamba questa tempesta. Il metro di paragone era quella dell’anno scorso, la famosa Irene, tanto attesa e mai, per fortuna, arrivata. “A Manhattan cosa vuoi che accada”, ci siamo ripetuti di bocca in bocca. Così la gente ha fatto un po’ di spese, comprato acqua e candele, ma più pensando a chi invitare per cena in attesa dell’arrivo di Sandy, che ai reali pericoli. Tutti sapevano che i veri danni sarebbero stati altrove: Brooklyn, Queens, Staten Island, la costa del New Jersey. Anche io che sono fifona di natura ero preoccupata, ma non troppo. Nessun amico è voluto venire a casa, così lunedì pomeriggio con calma ho fatto la spesa (abbondante), e riempito la vasca in caso fosse mancata l’acqua. La mattina sono andata a Battery Park proprio nella punta estrema di Manhattan, da dove si può vedere la statua della Libertà. Tirava già il vento e le onde del fiume battevano forti, il cielo era cupo e la polizia era in ogni angolo per controllare che nessuno si avvicinasse troppo agli argini.
Era evidente da subito che l’uragano questa volta sarebbe arrivato forte e intenso. Il pomeriggio si respirava la tipica aria da film prima di una tempesta. Tutto era silenzioso. Per strada poche persone e poche macchine. Le tv non facevano che parlare di Sandy: “comprate acqua, le medicine necessarie e ricaricate i cellulari”, ripetevano come un mantra. Il presidente Obama ha dichiarato lo stato di emergenza in molte città; Chris Christie, governatore del New Jersey, ha messo il coprifuoco e ordinato l’evacuazione dalle case vicino alla costa, così come ha fatto anche il sindaco di New York, Michael Bloomberg.
I vetri hanno iniziato a tremare verso le sette. Poi il vento si è fatto sempre più forte. L’effetto di come  spostava con ira la pioggia era quasi affascinante. Per paura che le finestre si potessero spaccare, ho messo il nastro isolante sui vetri, copiando il lavoro fatto dagli esercizi commerciali per non far volare i pezzi in caso di rottura. Sui davanzali ho piazzato un po’ di cuscini per attutire il rumore della pioggia battente. A un certo punto tutto si è spento: lampade, tv, internet, la ricezione del cellulare. “Tornerà, tornerà…”, mi ripetevo mentre spostavo il materasso in corridoio, dove non c’erano finestre, per sentirmi più sicura. Dieci minuti, mezz’ora, due ore. Alle dieci stesso rumore incessante del vento e stesso buio. Grazie al telefono fisso, sono riuscita a tenermi in contatto con qualcuno. Chiamavo spesso un mio compaesano, Giovanni Scano. Sapevo che era responsabile del reparto emergenze in alcune zone del New Jersey. In ogni telefonata mi raccontava di allagamenti, alberi caduti, macchine impantanate, cantine di villette piene d’acqua. Ho passato la notte preoccupata, non per me, che ero al sicuro: ma per tutte quelle famiglie evacuate, per chi sapevo che avrebbe perso la casa o la vita. Pensavo ai senzatetto, o a tutte le squadre di soccorsi che correvano da un’emergenza all’altra. L’uragano ci stava facendo male. La maggior parte degli abitanti del mio palazzo li ho conosciuti quella notte, tra lunedì e martedì, mentre Sandy spinta un vento di 120 km/h si impattava con l’alta marea, trasformandosi in una furia distruttrice. Con i vicini ci siamo incontrati per le scale buie e nei marciapiedi coperti da rami e foglie. Tutti con una candela. La New York che corre frenetica è stata costretta a fermarsi e distogliere gli occhi dall’iphone, dall’ipad, dall’ebook. E’ stato un momento social, irripetibile. Tutti avevano tempo: per parlare, aiutarsi, scambiarsi consigli e cibo. Dalla mia finestra vedevo solo buio. Mi sono addormentata fantasticando sulle vite delle famiglie che abitavano nelle case del palazzo di fronte al mio. Nessuno a New York ha le tapparelle, pochi usano le tende. Grazie alla luce fievole delle candele sistemate sui davanzali, si intravedevano squarci di vita: una mamma che dava da mangiare al figlioletto, due anziani seduti a fissare il vuoto con i gomiti sul tavolo, i ragazzi che fumavano rassegnati.
Il giorno dopo identico a quello precedente. Tutti ancora ad aspettare. A poco a poco iniziavano ad arrivare le notizie: una centralina elettrica si era rotta, molte zone di Manhattan erano allagate, ripetitori saltati, tralicci precari. Meglio non stare ad aspettare il ritorno della corrente. Eravamo fuori dal mondo. Era più facile che sapessero in Italia quello che stava accadendo che noi. Era pericoloso uscire di casa, si rischiava di essere colpiti da tronchi o pezzi di cemento. Il silenzio di una vita in standby era spezzato solo dal rumore delle sirene. Da una radiolina a batterie sentivo i giornalisti raccontare cose orribili. Morti, distruzione, disperazione. Sentivo fare il paragone con Katrina, l’uragano che sconvolse New Orleans. Raccontavano di case completamente sradicate, di macchine immerse nell’acqua. Il governatore del New jersey non faceva che ripetere con voce ferma “i danni sono incalcolabili. molti posti sulla costa dove andavo da bambino non ci sono più. They are gone”. Ma cosa vuol dire? Vuol dire che l’acqua ha travolto tutta la costa. Le prime immagini che sono riuscita a vedere dalle tv accese nei bar mentre cercavo informazioni e internet ad uptown, sopra la 34esima strada, erano sconvolgenti.
La ricostruzione sarà lenta, ci sono decine e decine di miliardi di danni. Certe aree saranno completamente ridisegnate. Tra martedì 6 e mercoledì, nella notte dell’Election day che deciderà il prossimo presidente degli Stati Uniti, è attesa tra l’altro una seconda ondata di piogge e vento. Le temperature sono calate improvvisamente. La situazione per le famiglie ancora senza corrente, gas, riscaldamento e cibo sta diventando drammatica. In quelle zone (del New Jersey e di New York) i mezzi pubblici ancora non viaggiano e uscire in macchina è difficile, non si trova più benzina.
A Manhattan a poco a poco invece si sta ritornando alla normalità. La luce c’è dappertutto, la Borsa ha riaperto; le scuole lo faranno lunedì 5. Mercoledì 31 invece molte vie della ricca upper west side hanno comunque festeggiato Halloween, nonostante la parata ufficiale dei mostri fosse stata rimandata. I bambini fremevano, dopo giorni rinchiusi in casa. La maratona invece alla fine non si farà: ovunque ti giri vedi un atleta nervoso, che però continua ad allenarsi. Erano venuti solo per correre. Ma New York è in lutto e le forze dell’ordine sono tutte impegnate nei soccorsi, non potrebbero assicurare il normale svolgimento della manifestazione. Le metropolitane hanno ripreso a funzionare parzialmente. Sono ferme, causa allagamenti ancora a sud. Da sabato ha riniziato a splendere il sole. Da quasi fastidio però. E’ un bagno di luce che stride dannatamente con l’inferno che molte famiglie stanno vivendo da lunedì scorso. Le tv hanno smesso di parlare di loro. Martedì è il gran giorno. C’è da riconfermare o bocciare il primo presidente nero della storia americana.